Ágota Kristóf: uno stile secco e diretto, una narrazione del dolore
Per chi non la conoscesse, Ágota Kristóf, autrice scomparsa nel 2011, è nota soprattutto per due motivi:
- per aver scritto i suoi romanzi non in ungherese, sua lingua madre, ma in francese;
- per aver pubblicato una delle trilogie più interessanti del secolo scorso, la Trilogia della città di K. (qui trovate la recensione del primo volume, Il grande quaderno)
Ma andiamo per ordine. La prima cosa interessante da capire è come mai Ágota Kristòf abbia deciso di scrivere in una lingua che non è la sua e che non riuscirà mai a padroneggiare pienamente e senza errori. Alla domanda “come mai ha deciso di scrivere in francese?” la sua risposta è stata tanto semplice quanto spiazzante. Per essere letta. Consapevole del fatto che, scrivendo in ungherese non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere pubblicata in Svizzera – Stato in cui si era trasferita da anni insieme alla famiglia – ha voluto assecondare i suoi desideri mettendosi alla prova con il francese.
In un’intervista di Michele De Mieri uscita per l’Unità, ha spiegato che il protagonista del suo libro Ieri «dice che è diventando assolutamente niente che si può diventare scrittori. Devo dire che quest’affermazione vale anche per me. Fin dall’infanzia ho amato leggere e scrivere. Tutte le altre cose non avevano nessuna importanza, ma non volevo fare degli studi letterari, diventare un professore. No, non amavo quella strada: ho preferito andare a lavorare in una fabbrica. Lì potevo concentrarmi sulla scrittura, sui miei pensieri, vicino alla macchina che io usavo in fabbrica c’era un foglio su cui scrivevo i miei versi, ed era la cadenza delle macchine a darmi il ritmo di quella poesia. Allora scrivevo in ungherese. Poi ho scritto pochissimo per molti anni: avevo abbandonato il mio paese e stavo lasciando anche la mia lingua per il francese che non conoscevo bene e così mi esercitavo con dialoghi teatrali. Oggi quelle mie prime opere in francese mi sembrano quasi tutte orribili. Non tutte, qualcuna buona c’è. Erano gli anni Settanta».
Questo approccio difficile con una lingua straniera raggiunge il suo apice nella Trilogia, la sua opera più nota e apprezzata. Una narrazione drammatica racconta la guerra attraverso gli appunti di due bambini di nove anni che, con la freddezza e l’onestà tipica dei più piccoli, mostrano un mondo di orrori. «Dopo le pièces teatrali cominciai a scrivere delle piccole novelle, volevo parlare della mia infanzia durante la guerra, vissuta con mio fratello maggiore. Scrivevo sempre delle scene corte, una o due pagine, poi queste scene, con il loro titolo, diventavano capitoli del mio romanzo. Quindi cambiai il mio nome e quello di mio fratello e trasformai i personaggi in due maschi e poi in due gemelli. Da quel momento non scrissi solo di cose da me vissute ma cominciai a immaginare altro. Lasciai l’autobiografia e riorganizzai quei capitoli per uno struttura romanzesca».
Giungere a uno stile così asciutto e freddo non è stato facile, né tantomeno immediato. Le sue inclinazioni naturali l’avrebbero portata verso uno stile elaborato, letterario e raffinato. Uno stile impossibile da realizzare, scrivendo in una lingua che conosceva ancora poco. «All’inizio […] quando scrivevo in ungherese ero melliflua, romantica, troppo letteraria. Le mie prime cose in francese, quelle per il teatro, erano scritte in una lingua normale, quotidiana. Solo quando ho cominciato a scrivere i capitoli della prima parte della Trilogia ho cercato fortemente un nuovo linguaggio: dovevo rendere lo stile di un libro scritto da dei bambini (i due gemelli n.d.r.), anche se un po’ speciali, molto intelligenti e autodidatti, che amano i dizionari com’eravamo io e mio fratello. Per la verità chi mi ha messo definitivamente sulla buona strada è stato mio figlio quando aveva dieci, dodici anni, io l’osservavo molto scrivere, studiavo il modo e il contenuto, e cercavo di apprendere quello stile, quel punto di vista. Il mio stile è figlio di mio figlio».
Una grande scrittrice, con una voce forte, unica, inconfondibile. Storie di vita, di morte, di amore e sofferenza, narrate con uno stile che incanta, che trascina, che impedisce al lettore di staccare gli occhi dalla pagina.
Alessandra Grohovaz
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