Storia e distopia, le origini di un genere ancora poco conosciuto.
Dopo aver parlato delle differenza tra distopia e utopia, è arrivato il momento di capire quali siano le origini del genere distopico, e soprattutto quali i motivi che hanno spinto l’uomo ad abbandonare i sogni di felicità per immergersi in un immaginario di dolore e sofferenze.
La distopia nasce come dis-utopia, opposto di un’utopia. Un genere che, anziché ipotizzare scenari di felicità assoluta, immagina un futuro caratterizzato da una condizione di oppressione e sofferenza. La rappresentazione di un mondo alternativo, ipotetico, in cui troviamo una situazione politica, sociale, economica o culturale nettamente peggiore rispetto a quella della realtà.
L’invenzione del termine “distopia” viene comunemente attribuita al filosofo inglese John Stuart Mill (1806-1873), che lo avrebbe utilizzato per la prima volta durante un discorso in parlamento il 12 marzo del 1868, per riferirsi ai suoi oppositori:
“Forse è un complimento eccessivo chiamarli utopisti, piuttosto bisognerebbe chiamarli distopisti o cacotopisti. Ciò che comunemente chiamiamo utopico è qualcosa troppo bello da realizzare; ma ciò cui loro si mostrano a favore è troppo cattivo per pensare di realizzarlo.”
Venne però usato per riferirsi al genere letterario solo intorno agli anni ’50 del Novecento.
Se dovessimo provare a posizionare l’origine del genere distopico lungo un’ipotetica linea del tempo, dovremmo con ogni probabilità inserirla in uno spazio compreso tra il XIX e l’inizio del XX secolo.
È però in seguito alla Seconda guerra mondiale e agli orrori di cui gli uomini si scoprono capaci in quegli anni, che la distopia si impone con violenza al posto dell’utopia. Diventa improvvisamente evidente come la sete di potere si sia trasformata in una malattia pericolosa e potenzialmente mortale, che si diffonde con la stessa rapidità di un virus e che, se non accuratamente arginata, potrebbe portare all’estinzione dell’intera umanità. L’immaginario del futuro assume toni foschi e connotazioni inquietanti. Dopo i drammi vissuti, immaginare che possa ancora esserci spazio per la gioia e la speranza appare ben oltre l’utopia.
La nascita della distopia, dunque, come il suo successivo sviluppo, è legata al bisogno di espressione delle proprie paure da parte dell’uomo. I romanzi distopici non sono altro che lo specchio dei timori di intere generazioni. Si modificano ed evolvono con esse.
Esistono diverse teorie su quale sia il fenomeno che ha dato ufficialmente il via al genere distopico. Una delle più accreditate guarda alla Rivoluzione francese, il cui clamoroso fallimento ha messo in discussione il concetto stesso di rivoluzione, insieme ai suoi ideali di “rigenerazione totale” e “uomo nuovo”, finendo perfino per mettere in discussione la possibilità stessa di liberazione dell’individuo da un potere opprimente.
Altra teoria è che la distopia abbia cominciato a farsi strada durante il periodo della Rivoluzione industriale, a causa delle moderne innovazioni da essa apportate. La tecnologia e la scienza, sempre osservate con speranza e ambizione dall’uomo, si stavano tramutando in nuovi padroni, segregandolo in una condizione di alienante schiavitù. Il mito del progresso si stava rapidamente infrangendo insieme ai sogni di una società ideale, lasciando il posto ai timori riguardo ciò che le potenzialità della scienza sarebbero state in grado di generare. La sensazione era ormai quella di aver perso il controllo sulla realtà.
Fu il successivo insorgere di regimi totalitari, in concomitanza con l’infrangersi del sogno utopico socialista, a dare la giusta spinta per l’affermazione del genere.
Proprio per quanto detto finora, non è affatto semplice individuare un singolo romanzo che possa essere considerato da tutti il vero capostipite del genere distopico. Il primissimo, ed isolato, caso di scrittura anti-utopica risale all’antica commedia aristofanea. L’Ἐκκλησιάζουσαι, o Le donne al parlamento, opera del 391 a.C., narra le vicende di un colpo di stato ad Atene che trasforma la città in una ginecocrazia.
Data la singolarità del caso, però, si tende a cercare il vero capostipite tra romanzi più recenti.
La corona quindi va al romanzo dello scrittore russo Evgenij Ivanovič Zamyatin (1884-1937) Мы, edito per la prima volta in lingua originale nel 1924 e in seguito tradotto e pubblicato con il titolo Noi. L’opera porta all’eccesso totalitarismo e conformismo caratteristici dell’Unione Sovietica di inizio Novecento, dando vita a una società che riconosce nel libero arbitrio la causa dell’infelicità umana e decide di assumere il pieno controllo delle vite dei cittadini . In questo modo, Zamyatin rovescia il concetto utopico di felicità collettiva, trasformandolo nell’incubo di una comune sofferenza che imprigiona i cittadini.
Alessandra Grohovaz