
Distopico, post-apocalittico
Einaudi
2007
Rilegato
218

Un uomo e un bambino, padre e figlio, senza nome. Spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana. La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un'apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Non c'è storia e non c'è futuro. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio. Ricorda la moglie (che decise di suicidarsi piuttosto che cadere vittima degli orrori successivi all'olocausto nucleare) e la nascita del bambino, avvenuta proprio durante la guerra. Tutti i loro averi sono nel carrello, il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare qualcosa da mangiare. Visitano la casa d'infanzia del padre ed esplorano un supermarket abbandonato in cui il figlio beve per la prima volta un lattina di cola. Quando incrociano una carovana di predoni l'uomo è costretto a ucciderne uno che aveva attentato alla vita del bambino. Dopo molte tribolazioni arrivano al mare; ma è ormai una distesa d'acqua grigia, senza neppure l'odore salmastro, e la temperatura non è affatto più mite. Raccolgono qualche oggetto da una nave abbandonata e continuano il viaggio verso sud, verso una salvezza possibile...
Vi racconto la fine del mondo per parlarvi della bontà dell’uomo.
Noi non mangeremo mai nessuno, vero?
No, certo che no.
Nemmeno se morissimo di fame?
Moriamo già di fame.
Ma comunque non mangeremo le persone.
No. Non le mangeremo.
Per niente al mondo.
No. Per niente al mondo.
Perché noi siamo i buoni.
Sì.
E portiamo il fuoco.
E portiamo il fuoco. Sì.
Ok.
«Per me si tratta solo di un libro che parla di un padre e di un figlio lungo una strada. Ma è bello che ognuno possa leggerci ciò che vuole».
Cormac McCarthy
Che volto ha, per voi, la fine del mondo? Per McCarthy ha l’aspetto di una strada che prosegue eternamente uguale a se stessa; una strada che porta ovunque, ma che non conduce veramente da nessuna parte, perchè non esiste più nessun luogo dove si possa voler andare. Un movimento obbligato, un moto d’inerzia rivolto alla fisica sopravvivenza.
Il mondo di McCarthy è forse il più oscuro, inquietante e malato della letteratura moderna. Un mondo che non necessita di fronzoli, aggettivi, abbellimenti (e nemmeno di virgolette nei discorsi), semplicemente perché la bellezza, qui, non esiste più. Esistono però la fame, la sofferenza, il dolore, la malattia. Ed esistono un bambino e un padre che camminano, fianco a fianco, lungo una strada che li conduce a Sud. Un bambino e un padre che, in un mondo che non è più mondo, sono diventati uno l’universo dell’altro. Un bambino e un padre che cercano l’ultima briciola di bellezza nell’amore che condividono.
È incredibile come McCarthy sia stato capace di raccontare tutto ciò in una dimensione narrativa quasi inesistente. Perché il lettore, dei due protagonisti, conosce solamente il presente, il tempo del racconto. Conosce le loro paure, i sogni, qualche frammento di ricordo. Li vede agire.
Non serve addentrarsi nelle loro menti per comprenderne il terrore, né dilungarsi in complicate digressioni su come e perché ci si ritrovi in questa realtà post-apocalittica. Il passato non conta, esiste solo il presente. Esiste una domanda terribile e ricorrente, che ci riporta in continuazione a una spietata riflessione su noi stessi: fino a che punto vale la pena di lottare per vivere?
La risposta sembra scontata fin dalle prime pagine, quando vediamo il padre camminare lungo la strada con una pistola stretta in mano. Due colpi. Due vite senza futuro. Ma è davvero così facile decidere quando è arrivato il momento di abbandonare tutto, fare un ultimo passo, vedere un’ultima alba?
Nella sua dimensione di orrore e sofferenza, La strada riesce a imporsi con una potenza emotiva quasi devastante come un vero capolavoro di positività e ottimismo. Raramente capita di finire un libro così difficile da digerire e rendersi conto che l’autore ci ha saputo trasmettere tutto l’amore per la vita, per la famiglia e per la giustizia di cui si possa essere capaci.
Raramente si sceglie un genere intrinsecamente negativista solo per poter parlare della bontà umana.
Alessandra Grohovaz